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Il Piano Solo prende nome dall’ipotesi di utilizzare solo unità di carabinieri

Le elezioni politiche del 28 aprile 1963 rivelano una leggera radicalizzazione delle preferenze politiche degli italiani. La DC scende per la prima volta sotto il 40 per cento, ottenendo il 38,3 per cento dei voti rispetto al 42,4 di cinque anni prima. I maggiori beneficiari della flessione democristiana sono i liberali, la cui coerente opposizione al Centro Sinistra permette di conseguire un aumento dal 3,5 al 7 per cento. A Destra i monarchici scompaiono (dal 4,9 all’1,7 per cento) ed il MSI sale pochissimo (dal 4,8 al 5,1 per cento). A sinistra il PSDI viene premiato dalla sua partecipazione al Governo Fanfani con un incremento dell’1,5 (dal 4,6 al 6,1 per cento), mentre il PSI cala impercettibilmente (dal 14,2 al 13,8 per cento). La sconfitta della Democrazia Cristiana indica un rifiuto alla politica di centrosinistra, unico elemento chiaro visibile dalle indicazioni elettorali, ma, dopo l’avventura di Tambronì, Moro e i dorotei sono decisi a continuare l’alleanza con socialisti, anche se in una forma più moderata. Le trasformazioni del paese già maturate negli anni precedenti spingono il partito cattolico a mantenere il timone a sinistra
per garantirsi il radicamento nei nuovi ceti sociali urbani emergenti, rispetto al vecchio mondo contadino in declino.
Nel mese di luglio, il Presidente americano John F. Kennedy giunge in Italia in visita ufficiale. Dopo una serie di incontri con tutti i segretari di partito e gli esponenti politici di maggior rilievo, la linea dell’apertura a sinistra viene pienamente confermata. L’appoggio statunitense alla svolta politica italiana si rivela ancora una volta contraddittoria. Kennedy, impegnato nel controllo della situazione interna che sta progressivamente sfuggendogli di mano, non può garantire un sostegno deciso al progetto. Accanto alle operazioni politiche dei collaboratori diretti della Casa Bianca, si sviluppano i piani di guerra non ortodossa in chiave anticomunista palese, che avrebbero avuto un peso notevole sul futuro dei Paese.
Nell’ottobre 1963, dopo il XXXV Congresso, il PSI è pronto a formare un nuovo Governo con i democristiani. Moro diviene Presidente Consiglio e Nenni vice Presidente. Il Dicastero del Bilancio è affidato ad Antonio Giolitti. Lombardi rifiuta la poltrona ministeriale. La partecipazione ad un Esecutivo moderato provoca una spaccatura all’interno del PSI, la corrente di estrema sinistra rifiuta di votare la fiducia e, sottoposta a provvedimenti disciplinari, di li a poco uscirà dal partito (31).
Il compromesso faticosamente raggiunto non possiede elementi duraturi. La destra è sempre più aggressiva verso i socialisti, mentre potentati economici, dall’industria all’edilizia, ed i baroni della finanza dei vecchi gruppi elettrici, scatenano un’offensiva non di poco conto. Le concessioni di Moro sul piano delle riforme – la riforma scolastica e la riforma urbanistica, meno radicale di quella di Sullo – preoccupano in modo considerevole gruppi conservatori ostili a qualsiasi forma di cambiamento. A giugno, dopo uno scontro parlamentare sulla riforma scolastica, Moro si dimette. Il Presidente della Repubblica Antonio Segni lo incarica di formare un nuovo governo, ma i negoziati sembrano prolungarsi all’infinito. Il 15 luglio viene convocato al Quirinale il Generale De Lorenzo, Comandante dell’Arma dei Carabinieri. L’evento, assolutamente anomalo, si verifica il giorno dopo la temporanea interruzione delle consultazioni tra i quattro partiti di centrosinistra e acquista quindi un significato polìtico tale da far parlare di un colpo di stato ‘virtuale’, nel senso di una vera e propria minaccia che viene fatta pesare sul capo dei dirigenti politici; una forzatura insomma delle decisioni da assumere. Il pericolo in cui versano le istituzioni repubblicane costringe Nenni a moderare la sua intransigenza, portandolo al reingresso nel nuovo esecutivo, senza nessun vantaggio rispetto al precedente governo. “Improvvisamente i partiti e il Parlamento hanno avvertito che potevano essere scavalcati. La sola alternativa […] è stata quella d’un Governo d’emergenza, affidato a personalità così dette eminenti, a tecnici, a servitori disinteressati dello Stato, che nella realtà del paese qual è, sarebbe stato il Governo delle Destre, con un contenuto fascistico-agrario-industriale, nei cui confronti il ricordo del luglio 1960 sarebbe impallidito” (32).
Una Commissione parlamentare d’inchiesta sintetizza così i fatti: “Nella primavera-estate del 1964 il generale De Lorenzo, quale comandante dell’Arma dei carabinieri, al di fuori di ordini o direttive o semplici sollecitazioni provenienti dall’autorità politica, e senza nemmeno darne notizia, ideò e promosse l’elaborazione di piani straordinari da parte delle tre divisioni dell’Arma operanti nel territorio nazionale. Tutto ciò nella previsione che l’impossibilità di costituire un governo di centrosinistra avrebbe portato a un brusco mutamento dell’indirizzo politico, tale da creare gravi tensioni fino a determinare una situazione d’emergenza” (33).
E’ il cosiddetto “Piano Solo”. Prende nome dall’ipotesi di utilizzare solo unità di carabinieri per affrontare possibili emergenze. Il piano prevede un insieme di iniziative tra cui l’occupazione della RAI-TV, il controllo delle centrali telefoniche e telegrafiche, il fermo di numerosi esponenti della vita nazionale. Bruno Trentin, ex Segretario Generale della CGIL, ricorda: “Che ci sia stato un clima di forte tensione e anche di allarme, non solo nei partiti della sinistra, ma anche nel movimento sindacale è indubbio. Come è vero che vi sono stati giorni in cui dirigentí sindacali erano, almeno nella CGIL, in situazione di preallarme e avevano provveduto in alcuni casi a trovare delle seconde abitazioni. Che siano state utilizzate, francamente non ne ho conoscenza, a parte qualche caso sporadico” (34).
Lo scandalo del ‘Piano Solo’ scoppierà un paio d’anni più tardi e si concluderà con la sostituzione di De Lorenzo nell’incarico di capo di stato maggiore dell’esercito, dopo che il generale avrà rifiutato la proposta del ministro della Difesa, Tremelloni, di dimettersi. La polemica tornerà a divampare in seguito a una querela per diffamazione aggravata contro il settimanale “L’Espresso”, diretto da Eugenio Scalfari, ‘reo’ di avere pubblicato un articolo di Lino Jannuzzi dal titolo “Finalmente la verità sul SIFAR. 14 luglio 1964: complotto al Quirinale. Segni e De Lorenzo preparano un colpo di Stato”. Racconta il giornalista: “Il governo e lo stesso presidente della Repubblica smentirono le nostre rivelazioni. Il generale De Lorenzo ci querelò e il tribunale, a cui il governo aveva rifiutato i documenti con la scusa del segreto militare, ci condannò. Ma intanto il Parlamento aveva deciso di fare su tutta la questione un’inchiesta parlamentare. Per la prima volta nella storia d’Italia il Parlamento poté mettere il naso nelle cose segrete del mondo militare. Questa commissione, sia pure sfumando e censurando alcune cose, accertò che i fatti erano veri” (35).
La Commissione Parlamentare d’inchiesta sul terrorismo in Italia nella proposta di relazione redatta dal Presidente Giovanni Pellegrino, spiega “che la valenza e la destinazione funzionale del Piano non può cogliersi astraendosi da un lato dalla considerazione che il piano non fu mai attuato, sicché si è in presenza – come già per Gladio – di una sostanziale potenzialità operativa; dall’altro dalla circostanza che ciò malgrado sembra difficile negare che la predisposizione del piano ebbe un’indubbia influenza sugli esiti della vicenda politica nell’estate del 1964. Sul punto, in altri termini appare improduttivo alla Commissione indugiare sulla “realtà” di un progetto golpista da parte del generale De Lorenzo (e cioè domandarsi se si tratta di una minaccia reale, poi non realizzata per motivi che resterebbero oscuri, dato che di essa si ebbe notizia solo alcuni anni dopo) – ovvero se non vi sia stato nulla di tutto ciò ma soltanto un improvvido attivismo del generale; un maldestro eccesso di zelo la cui importanza sarebbe stata a torto enfatizzata negli anni successivi. Più fondato appare alla Commissione riconoscere che a fondamento di una valutazione finale possano valere giudizi espressi sul punto da due protagonisti della vicenda politica e cioè da Nenni da un lato, Moro dall’altro, giudizi che, pure formulati a circa un quindicennio di distanza l’uno in condizioni diversissime, appaiono sostanzialmente coincidenti”.
Molti anni dopo, prigioniero delle Brigate Rosse, l’on. Moro avrebbe così descritto la vicenda: “Nel 1964 si era determinato uno stato di notevole tensione per la recente costituzione del centrosinistra […] per la nazionalizzazione dell’energia elettrica […], per la crisi economica che per ragioni cicliche e per concorrenti fatti politici si andava manifestando. Il presidente Segni, uomo di scrupolo, ma anche estremamente ansioso, tra l’altro, per la malattia che avrebbe dovuto colpirlo da lì a poco, era fortemente preoccupato. Era contrario alla politica di centrosinistra. Non aveva particolare fiducia nella mia persona che avrebbe volentieri cambiato alla direzione del Governo. Era terrorizzato da consiglieri economici che gli agitavano lo spettro di un milione di disoccupati di lì a quattro mesi. […] Fu allora che avvenne l’incontro con il generale De Lorenzo [….]. Per quanto io so il generale De Lorenzo evocò uno dei piani di contingenza, come poi fu appurato nell’apposita Commissione parlamentare di inchiesta, con l’intento soprattutto di rassicurare il Capo dello Stato e di pervenire alla soluzione della crisi” (36). E’ un giudizio che viene ulteriormente precisato, nel corso del memoriale, laddove può leggersi: “il tentativo di colpo di Stato nel ’64 ebbe certo le caratteristiche esterne di un intervento militare, secondo una determinata pianificazione propria dell’Arma dei Carabinieri, ma finì per utilizzare questa strumentazione militare essenzialmente per portare a termine una pesante interferenza politica rivolta a bloccare o almeno fortemente dimensionare la politica di centrosinistra, ai primi momenti del suo svolgimento” (37).
Queste valutazioni sostanzialmente coincidono con quelle espresse da Nenni nell’immediatezza dei fatti (vedi nota 32): unica alternativa ad una riedizione dei governo di centrosinistra era quella di un Governo di emergenza, affidato a tecnici, che nella realtà del Paese quale era, avrebbe avuto il sostegno delle destre ed avrebbe attivato una situazione di tensione. “Non sembra dubbio alla Commissione che il Piano Solo era destinato ad acquisire attualità operativa appunto in previsione di tale evenienza, con modalità che si ponevano al di fuori dell’ordinamento costituzionale. Così come è indubbio che la percezione in sede politica di tale possibile evenienza valse a determinare, come Moro esattamente noterà quindici anni più tardi, un forte ridimensionamento della politica di centrosinistra ai primi momenti del suo svolgimento. Né vi è dubbio che ciò corrispondesse agli interessi perseguiti da settori dell’amministrazione statunitense (o cioè il depotenziamento del centro sinistra, così esorcizzando le preoccupazioni nutrite da ampi strati del ceto dirigente e imprenditoriale italiano) e che si situava all’interno di un disegno strategico più ampio di ‘stabilizzazione’ del quadro politico italiano, rispetto al quale un’involuzione autoritaria costituiva esito estremo e non gradito” (38).
[NOTE]
(31) Nel gennaio 1964, trentotto deputati e senatori abbandonano il partito per creare il PSIUP. In un intervento in Parlamento Lelio Basso afferma: “Una sola cosa non si può fare ed è quella di sacrificare l’autonomia del movimento operaio, di subordinare scelte politiche al disegno organico della classe dominante. Ed è invece proprio questo disegno organico che noi vediamo nel Governo Moro”
(32) Riflessioni di P. Nenni sull’Avanti, 26 Luglio 1964.
(33) S. Zavoli, La notte della Repubblica, I libri dell’Unità, Roma 1994, pag.21
(34) ibidem pag.22
(35) ibidem pag.22
(36) F.M. Biscione, Il Memoriale di Aldo Moro, rinvenuto in via Montenevoso a Milano, Coletti, Roma 1993, pag.45
(37) ibidem, pag.46
38) G. Pellegrino, Proposta di Relazione, Il Terrorismo, le stragi e il contesto storico-politico, pag.86,87, Roma 1994.
Lorenzo Pinto, Le “stragi impunite”. Nuovi materiali documentari per una ricerca sulla strategia della tensione, Tesi di Laurea, Università degli Studi di Roma “La Sapienza”, Anno Accademico 1996-1997

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Nonostante il nuovo ambasciatore USA in Italia, Ellsworth Bunker, si fidasse della stabilità del Governo De Gasperi, i politici di Washington continuarono a “pompare” aiuti all’economia italiana a sostegno del centrismo. Venne previsto infatti un programma di commesse militari di ben 300 milioni di dollari, con la motivazione di espandere l’economia del governo di Roma. Tutto ciò era atto ad assicurare la riconferma degli esiti politici del 1948 alle prossime elezioni del 1953. La stessa CIA rivelerà in futuro che nel ventennio 1948-1968 avrebbe speso 65 milioni di dollari per finanziare la Democrazia Cristiana e l’anticomunismo italiano <57.
L’8 ottobre 1951, il direttore del SIFAR, Generale Umberto Broccoli, inviò al Capo di Stato Maggiore della Difesa, Generale Efisio Marras, un promemoria intitolato “Organizzazione informativa-operativa nel territorio nazionale suscettibile di occupazione nemica” <58. Nel 1952 vennero previsti il “Clandestine Planning Committee” (“Comitato Clandestino di Pianificazione”, CPC) e l’ “Allied Clandestine Committee” (“Comitato Clandestino Alleato”, ACC),
entrambi per volontà della Nato e alle dirette dipendenze del “Supreme Headquarters Allied Powers Europe” (“Comando Supremo delle Forze Alleate in Europa”, lo SHAPE <59). Tali organi erano stati costituiti per creare una grande rete Stay Behind europea unita che desse stabilità, di tipo militare, all’Alleanza Atlantica.
Il Generale Broccoli incontrava spesso i rappresentati della CIA e della Nato, oltre a partecipare regolarmente alle riunioni segrete dell’CPC e dell’ACC.
Sempre nel 1952, in base all’articolo n° 3 del Patto Atlantico, il servizio segreto italiano e quello americano avevano stabilito un accordo per la creazione di una base USA in Italia <60, in preparazione alla rete clandestina; tuttavia, solo nel novembre del 1956 ci sarà un accordo conclusivo sulla costituzione della rete <61.
Ma seri timori nacquero quando alle elezioni politiche del giugno 1953, la DC ottenne solo il 40% dei voti (perdendo 43 seggi parlamentari), nonostante le manovre clandestine della CIA. La coalizione di sinistra invece si rafforzò e raggiunse il 35% dei voti, con 218 seggi62. Era la crisi del centrismo, che porterà alla fine dell’era “degasperiana”. Vi sarà la costituzione di un governo monocolore di carattere “amministrativo”, guidato dal democristiano Giuseppe Pella, che otterrà la fiducia di monarchici, liberali e repubblicani <63.
Il funzionario (e futuro direttore) CIA William Colby rivelò in seguito che gli USA erano preoccupati del fatto che il voto combinato socialcomunista sarebbe potuto diventare la forza politica più influente in Italia, viste le elezioni del 1953. Bisognava perciò intensificare la “guerra segreta” a tutti i costi.
Il 14 marzo 1954 la direttiva americana “NSC 5412” (denominata “covert operations”) disponeva l’integrazione delle reti Stay Behind della Nato con quelle dei singoli stati europei, allo scopo di coordinare le azioni clandestine in caso di invasione nemica <64.
Nel gennaio 1956 la CIA aveva chiesto all’ambasciata USA in Italia di fare pressione sul Ministro della Difesa Taviani, affinché mettesse a capo del SIFAR il Generale Giovanni De Lorenzo, risorsa anticomunista molto ben vista agli occhi degli americani, necessaria a rendere più “aggressivo” il servizio segreto italiano, dopo le elezioni del 1953. De Lorenzo era un ufficiale di artiglieria che dopo l’8 settembre del 1943 divenne partigiano e operò prima in Romagna e poi nella Roma occupata dai nazisti, venendo successivamente decorato con la medaglia d’argento; quindi, visto anche come “eroe” dalla sinistra <65; il suo singolare portamento e la sua determinazione lo rendevano un militare di “vecchio stampo”.
Il 9 marzo 1956 il Colonnello Olivieri ordinò lo scioglimento dell’“Organizzazione O” <66 (la cui ufficialità si avrà tuttavia il 4 ottobre successivo), in favore della costituzione della rete Stay Behind per effetto dell’accordo tra CIA e SIFAR. Lo confermerà in futuro lo stesso Ministro Taviani, che rappresentava a tutti gli effetti il “padre politico” di Gladio <67.
Il 26 novembre successivo, mentre il mondo era ancora scosso dalle crisi di Ungheria e Suez, un documento top secret firmato dal neo direttore del SIFAR De Lorenzo, decretò ufficialmente la nascita dell’“Operazione Gladio” <68, una rete clandestina dipendente dal servizio segreto italiano ma di matrice “atlantica” e sotto il continuo controllo e supporto della CIA.
Il documento firmato dal Generale De Lorenzo recava il titolo: “Accordo fra il Servizio Informazioni Italiano e il Servizio Informazioni USA relativo all’organizzazione ed all’attività della rete clandestina post-occupazione italo-statunitense” <69.
Diversamente dalla organizzazione che la precedette, l’“Organizzazione O”, la Gladio non era adibita alla sicurezza della sola regione orientale (Friuli-Venezia Giulia), ma a tutto il territorio nazionale, come riferirà il Generale Inzerilli. La struttura aveva un dichiarato obiettivo di tipo militare e difensivo; quindi, non fu concepita come soggetto di lotta politica o propagandistica occulta contro il Partito Comunista Italiano <70.
Già il 1° ottobre 1956, all’interno dell’ “Ufficio R” del SIFAR era stata costituita la sezione addestramento, denominata “Studi Speciali e Addestramento del personale” (SAD) <71. La sezione, con il ruolo di coordinatore generale
dell’“Operazione Gladio”, si articolava in 4 gruppi: 1) Supporto generale; 2) Segreteria permanente ed attivazione delle branche operative; 3) Trasmissioni; 4) Supporto aereo, logistico e operativo.
Tra i maggiori progetti del SIFAR vi era quello della costruzione di un nuovo quartier generale per l’esercito segreto Gladio, per il quale la CIA mise a disposizione 300 milioni di lire. Per motivi di segretezza e funzionalità, la base non doveva trovarsi nell’Italia continentale, ma in una delle due maggiori isole del paese: venne scelta la Sardegna <72. L’8 maggio 1954, il direttore dell’“Ufficio R” del SIFAR, Maggiore Antonio Lanfaloni, firmò un rogito, insieme ai Colonnelli Ettore Musco (all’epoca direttore del SIFAR) e Felice Santini, stipulato davanti ad un notaio per la compravendita di alcuni terreni in Sardegna <73, sui quali sorgerà poi il “Centro Addestramento Guastatori” (CAG) di Gladio.
[NOTE]
57 Ilari Virgilio, Storia militare della prima repubblica, 1943-1993, Ancona, Nuove ricerche, 1994, p. 445.
58 Senato della Repubblica, Commissione parlamentare d’inchiesta sul terrorismo in Italia e sulle cause della mancata individuazione dei responsabili delle stragi, Relazione d’inchiesta condotta sulle vicende connesse all’operazione Gladio, 1992, p. 14.
59 Ganser Daniele et al., Gli eserciti segreti della Nato: operazione Gladio e terrorismo in Europa occidentale, Roma, Fazi, 2005, p. 7.
60 Ilari Virgilio, Storia militare della prima repubblica, 1943-1993, Ancona, Nuove ricerche, 1994, p. 535.
61 Formigoni Guido, Storia d’Italia nella guerra fredda (1943-1978), Bologna, il Mulino, 2016, p. 199.
62 Ganser Daniele et al., Gli eserciti segreti della Nato: operazione Gladio e terrorismo in Europa occidentale, Roma, Fazi, 2005, p. 84.
63 Formigoni Guido, Storia d’Italia nella guerra fredda (1943-1978), Bologna, il Mulino, 2016, p. 201.
64 Ilari Virgilio, Storia militare della prima repubblica, 1943-1993, Ancona, Nuove ricerche, 1994, p. 536.
65 Ilari Virgilio, Il generale col monocolo. Giovanni De Lorenzo. 1907-1973, Ancona, Nuove ricerche, 1995.
66 Pacini Giacomo, Le organizzazioni paramilitari nell’Italia repubblicana: 1945-1991, Civitavecchia, Prospettiva, 2008, p. 131.
67 Idem, p. 121.
68 Ganser Daniele et al., Gli eserciti segreti della Nato: operazione Gladio e terrorismo in Europa occidentale, Roma, Fazi, 2005, p. 85.
69 Crocoli, Nome in codice Gladio, Milano, 2017, pag. 69.
70 Formigoni Guido, Storia d’Italia nella guerra fredda (1943-1978), Bologna, il Mulino, 2016, p. 199.
71 Crocoli, Nome in codice Gladio, Milano, 2017, pag. 70.
72 Ganser Daniele et al., Gli eserciti segreti della Nato: operazione Gladio e terrorismo in Europa occidentale, Roma, Fazi, 2005, p. 85.
73 Pacini Giacomo, Le organizzazioni paramilitari nell’Italia repubblicana: 1945-1991,
Civitavecchia, Prospettiva, 2008, p. 16.
Daniele Pistolato, “Operazione Gladio”. L’esercito segreto della Nato e l’Estremismo Nero, Tesi di laurea, Università degli Studi di Padova, Anno Accademico 2023-2024

https://bigarella.wordpress.com/2024/10/16/nel-1954-una-direttiva-americana-disponeva-lintegrazione-delle-reti-stay-behind-della-nato-con-quelle-dei-singoli-stati-europei/

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La “guerra civile italiana” <38, espressione coniata da Claudio Pavone per descrivere la lotta che negli anni ’43-’45 vide i sanguinosi combattimenti tra lo schieramento repubblichino, da una parte, e la Resistenza italiana, dall’altra, lasciò ferite profonde e difficilmente sanabili nel tessuto sociale e politico della penisola. Ciò accadde, come hanno dimostrato studi recenti, non solo a causa dell’esperienza del brutale regime di occupazione nazionalsocialista <39, ma anche a causa natura stessa della “liberazione” alleata, che andò di pari passo con fenomeni come il cosiddetto moral bombing, determinando un pieno coinvolgimento della popolazione civile e connotando quindi la guerra civile italiana come una “guerra totale” <40. Mentre la battaglia antifascista aveva visto temporaneamente la cooperazione tra l’ala di sinistra della Resistenza italiana, gli Alleati e i partigiani anticomunisti, già agli albori del referendum costituzionale del 1946 emerse il divario che separava i partiti di sinistra, in particolar modo il PCI di Palmiro Togliatti, da quelli di centro e filo-statunitensi come la Democrazia Cristiana, guidata dal presidente del Consiglio Alcide de Gasperi. Dopo la fine della guerra fredda la storiografia – soprattutto quella italiana ma non solo – ha dedicato particolare attenzione all’insieme di elementi che, a partire dal 1945, avrebbero contribuito alla formazione della memoria collettiva italiana della seconda guerra mondiale <41. Tale processo di formazione della memoria italiana postbellica avrebbe comportato, da una parte, l’attribuzione esclusivamente alla Germania nazista della colpa delle atrocità commesse dalle forze dell’Asse durante il conflitto, dando vita al cosiddetto “mito del buon italiano” <42. D’altra parte, avrebbe condotto alla mistificazione e alla politicizzazione del fenomeno resistenziale <43. Si trattava di un racconto secondo cui la battaglia al nazismo e al fascismo sarebbe stata uno sforzo comune del popolo italiano nella sua totalità, offrendo dunque un’interpretazione estremamente parziale e riduttiva del quadro politico, sociale e ideologico in Italia durante gli ultimi anni di guerra. Il “mito della Resistenza” sarebbe stato fondamentale per le dinamiche politico-sociali italiane immediatamente successive al ’45 e, allo stesso tempo, avrebbe giocato un ruolo importante tanto nella formazione della memoria collettiva italiana della seconda guerra mondiale, quanto all’interno del processo di politicizzazione del fenomeno resistenziale. La suddetta narrazione della “Resistenza collettiva” fu inizialmente usata sia dai partiti di sinistra che dallo stesso De Gasperi <44, in quanto faceva appello all’intero popolo italiano ed era utile per gettare le basi per il “nuovo inizio” dell’Italia repubblicana. In tal senso, come ha sottolineato Pietro Scoppola, il suddetto mito «non riguarda il vissuto dei resistenti ma il richiamo alla Resistenza come scelta politica della nuova classe dirigente» <45. Infatti, secondo Scoppola, il “mito della Resistenza” ha avuto lo scopo politico di «separare le sorti dell’Italia sconfitta da quelle del fascismo, per riaccreditare l’immagine del paese di fronte alle potenze democratiche» e, inoltre, «è servito psicologicamente agli italiani, anche a quelli che alla Resistenza non avevano partecipato affatto, né materialmente né idealmente, per liberarsi dal complesso di colpa di aver dato il loro consenso al fascismo, per liberarsi dalla frustrazione di una guerra perduta, per sentirsi parte della comunità dei paesi democratici» <46. Il significato dell’utilizzo del “mito della Resistenza” nel contesto politico italiano risulta particolarmente significativo se si guarda agli anni 1946-1948 nella penisola. Poco dopo la fine della guerra, l’Italia dovette fare i conti con la realtà e chiedersi come sarebbe stato possibile conciliare i principi antifascisti della propria costituzione con una Realpolitik di ricostruzione postbellica. Mentre l’epurazione fascista fu senz’altro uno dei pilastri dell’iniziale politica non solo del Comitato di Liberazione Nazionale (CLN), ma anche del successivo governo De Gasperi, in Italia, al pari della Germania, l’epurazione “radicale” dovette infine cedere il passo alla reintegrazione, percepita come necessaria, di moltissimi individui precedentemente giudicati come “compromessi”. Già a partire dall’amnistia Togliatti del ’46, la nuova classe dirigente italiana palesò l’intenzione di voler “pacificare” il paese attraverso il rapido reintegro nella società di chi si era macchiato di crimini durante gli ultimi anni di guerra, fra cui anche collaborazionisti del regime d’occupazione nazionalsocialista <47; un trend che si sarebbe protratto, attraverso l’emanazione di varie amnistie e provvedimenti, fino alla metà degli anni Sessanta. Simili provvedimenti, uniti alla progressiva emarginazione delle sinistre dal governo, avrebbero anche portato alla nascita del concetto di “Resistenza tradita”, un’accusa rivolta direttamente contro la classe dirigente italiana postbellica, secondo cui le nuove politiche dell’Italia avrebbero “calpestato” i principi fondamentali della Resistenza, alla base della neonata Repubblica. La questione della continuità/discontinuità, come si vedrà, avrebbe avuto un profondo impatto anche sul mondo dell’intelligence italiana <48. Nel frattempo, il divario apertosi già a guerra finita fra i partiti di sinistra, soprattutto il PCI e il PSIUP/PSI, e la DC di De Gasperi continuò ad ampliarsi progressivamente sullo sfondo dell’inasprirsi delle tensioni tra URSS e USA. Particolarmente il PCI di Togliatti, direttamente legato a Mosca <49 e dotato di un’ampia base elettorale, finì ben presto nell’“occhio del ciclone” della politica anticomunista degasperiana, simbolicamente inaugurata dalla visita del presidente del Consiglio negli Stati Uniti nel gennaio del ’47. Un anno dopo, con il successo schiacciante della DC nei confronti del Fronte Popolare alle elezioni del ’48, si aprì in Italia un periodo che potrebbe definirsi di “guerra fredda nazionale”, che vide una progressiva polarizzazione in senso ideologico non solo della politica, ma anche di vari altri elementi della vita pubblica e privata. Se a ciò si aggiunge anche il già menzionato fattore della “epurazione parziale” e l’avvento di movimenti, organizzazioni e partiti neofascisti, come il Movimento Sociale Italiano, risulta chiaro perché l’intelligence statunitense avesse avvertito il caso italiano come “la tempesta perfetta”. Tuttavia, mentre l’intelligence italiana e filo-statunitense in generale poteva all’epoca tollerare la reintegrazione di ex uomini del regime fascista nei neonati servizi segreti italiani, in quanto portatori non solo di esperienza, ma anche di un forte orientamento anticomunista, non risultava tuttavia accettabile l’esistenza di un compatto fronte comunista e socialista in Italia e di eventuali gruppi estremisti armati e, potenzialmente, incontrollabili. Progressivamente, dopo la sconfitta delle sinistre nel ’48, la caccia al “nemico rosso” divenne un elemento centrale degli apparati di sicurezza interna, come nel caso del ministero dell’Interno guidato da Mario Scelba. Esso, al pari delle forze armate, fu uno degli organi statali dell’Italia postbellica che più avrebbe rispecchiato le conseguenze della “mancata Norimberga” italiana. Proprio la figura di Scelba, responsabile del nuovo servizio segreto del Viminale, cioè l’Ufficio Affari Riservati (UAR), nato nel ’48, fu emblematica per la «rottura tra Stato e Resistenza» <50. Egli, soprattutto all’interno del neonato UAR, impiegò, come si vedrà, un grande numero di uomini provenienti dalle file degli ex organi di sicurezza fascisti <51. Ben presto così il Viminale divenne uno dei principali tramiti dell’intelligence statunitense nella penisola. Rispetto al contesto tedesco, anche l’Italia, seppur secondo modalità del tutto diverse, visse dunque un “momento di svolta” per quanto riguarda la legittimazione e il rafforzamento dei propri servizi segreti. Nel caso della penisola tale momento è individuabile nel biennio ’48-’49, una fase estremamente “calda” degli inizi della guerra fredda. Il biennio vide, fra le altre cose, le già menzionate elezioni generali italiane, così come l’approvazione dell’ERP (European Recovery Program), il blocco di Berlino e, successivamente, la nascita delle due Germanie, nonché il test coronato dal successo della bomba atomica sovietica. Furono quindi gli anni in cui lo scontro bipolare mondiale iniziò ad affermarsi come vero e proprio sistema <52 e in cui l’Italia, fondamentale porta sul Mediterraneo e vicina ai paesi sotto influenza sovietica, acquistò un’importanza strategica del tutto nuova all’interno dello schieramento anticomunista. Di conseguenza non stupisce che il già menzionato servizio d’intelligence interno del Viminale, l’UAR, fosse nato proprio nel ’48. Nella primavera dell’anno successivo fu creato l’organo d’intelligence del ministero della Difesa, cioè il Servizio Informazioni Forze Armate (SIFAR), altro partner prezioso degli USA in Europa, soprattutto agli albori della “strategia della tensione” <53. La fondamentale differenza che distingue il caso italiano da quello tedesco, dal punto di vista del rapporto tra l’intelligence nazionale e quella alleata e soprattutto statunitense, è individuabile proprio nel grado di autonomia degli organi spionistici in questione. Nell’Italia postbellica la nascita dei suddetti servizi segreti nazionali avvenne certamente dietro approvazione degli Alleati occidentali e grazie al sostegno di questi ultimi, ma l’UAR e il SIFAR vennero posti sin dall’inizio sotto il controllo dei ministeri italiani e il loro rapporto con l’intelligence statunitense, di conseguenza, si configurò come collaborazione tra pari, piuttosto che come dipendenza. Nel caso della RFT solo il FWHD ebbe tale privilegio, mentre tutti gli altri servizi segreti nazionali, nati negli anni Cinquanta, iniziarono la propria attività sotto il controllo alleato. [NOTE] 38 C. Pavone, Una guerra civile. Saggio storico sulla moralità nella Resistenza, Bollati Boringhieri, Torino 1991. 39 L. Klinkhammer, L’occupazione tedesca in Italia: 1943-1945, Bollati Boringhieri, Torino 2016. 40 M. Evangelista, Racism or common humanity? Depictions of Italian civilians under Allied war and occupation, in «Occupied Italy», N.1, 2021, URL: < http://occupieditaly.org/it/racism-or-common-humanity-depictions-of-italian-civilians-under-allied-war-and-occupation/ > (sito consultato il 17 settembre 2021).
41 A tal proposito si possono citare, fra gli altri, T. Judt, The Past Is Another Country: Myth and Memory in Postwar Europe, in I. Déak, J.T. Gross, T. Just (a cura di), The Politics of Retribution in Europe. World War II and Its Aftermath, Princeton University Press, Princeton 2000, pp. 293-323; A. Rapini, Antifascismo e cittadinanza. Giovani, identità e memorie nell’Italia repubblicana, Bononia University Press, Bologna 2005; P. Cooke, The Legacy of the Italian Resistance, Palgrave MacMillan, New York 2011; F. Focardi, Il passato conteso. Transizione politica e guerra della memoria in Italia dalla crisi della prima Repubblica ad oggi, in F. Focardi, B. Groppo (a cura di), L’Europa e le sue memorie. Politiche e culture del ricordo dopo il 1989, Viella, Roma 2013, pp. 51-91.
42 F. Focardi, Il cattivo tedesco e il bravo italiano. La rimozione delle colpe della seconda guerra mondiale, Laterza, Roma-Bari 2016.
43 F. Focardi, Il passato conteso, cit.; S. Peli, La Resistenza in Italia: storia e critica, Einaudi, Torino 2004.
44 Come esempio si può citare il discorso di De Gasperi alla Conferenza di Parigi del 29 agosto 1946. Il video originale è reperibile al seguente link: URL https://www.youtube.com/watch?v=pBaPZT_QX9E (sito consultato il 24 settembre 2021).
45 P. Scoppola, 25 aprile. Liberazione, Einaudi, Torino 1995, p. 7.
46 Ibidem.
47 M. Franzinelli, L’Amnistia Togliatti. 22 giugno 1946: colpo di spugna sui crimini fascisti, Mondadori, Milano 2006.
48 L’elemento di continuità/discontinuità tra gli organi di sicurezza e di spionaggio interni del fascismo e dell’epoca postbellica emerge, fra gli altri, dai seguenti volumi: D. Conti, Gli uomini di Mussolini, cit.; M. Canali, Le spie del regime, cit.; V. Coco, Polizie speciali, cit.
49 A tal proposito cfr., fra gli altri, E. Aga Rossi, V. Zaslavskij, Togliatti e Stalin. Il PCI e la politica estera staliniana negli archivi di Mosca, Il Mulino, Bologna 1997.
50 D. Conti, Gli uomini di Mussolini, cit., p. 16.
51 Per un’analisi approfondita dell’UAR cfr. G. Pacini, Il cuore occulto del potere, cit.
52 J.L. Harper, La guerra fredda, cit.
53 Per il ruolo del SIFAR nella strategia statunitense anticomunista cfr. F. Cacciatore, Il nemico alle porte. Intervento americano in Europa e strategia di covert operation, 1943-1963, Tesi di dottorato non pubblicata, Università di Salerno 2021. Per un’analisi degli anni della “strategia della tensione”, fra gli altri, cfr. B. Armani, Italia anni settanta. Movimenti, violenza politica e lotta armata tra memoria e rappresentazione storiografica, in «Storica», 11 (2012), n. 32, pp. 41-82; A. Cento Bull, Italian Neofascism: The Strategy of Tension and the Politics of Nonreconciliation, Berghahn, Oxford 2007.
Sarah Anna-Maria Lias Ceide, ODEUM Roma. L’Organisation Gehlen in Italia agli inizi della guerra fredda (1946-1956), Tesi di Dottorato, Università degli Studi di Napoli “Federico II”, 2022

https://bigarella.wordpress.com/2024/09/24/dopo-la-sconfitta-delle-sinistre-nel-48-la-caccia-al-nemico-rosso-divenne-un-elemento-centrale-degli-apparati-di-sicurezza-interna/

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Dopo il lavoro della commissione, le dimissioni di Allavena e la collocazione “a disposizione” di De Lorenzo, si sperò che la fase calda dello scandalo fosse conclusa. Invece, qualche settimana più tardi, il 10 maggio 1967, il settimanale L’Espresso pubblicò un articolo-inchiesta dal titolo “Finalmente la verità sul SIFAR: 14 luglio 1964: complotto al Quirinale. Segni e De Lorenzo preparavano il colpo di Stato”; lo scandalo fu sensazionale, le copie andarono esaurite in mezza giornata. Le informazioni di cui disponeva il giornale provenivano da fonti interne all’Esercito, che avevano a loro volta ricevuto le confidenze di alcuni ufficiali dell’Arma “che si erano trovati a partecipare loro malgrado alle riunioni preparatorie” <97.
La ricostruzione era la seguente: il 14 luglio 1964 – in concomitanza con la caduta del primo governo Moro e le conseguenti consultazioni al Quirinale – il comandante dei carabinieri De Lorenzo, ex responsabile del Sifar dal ‘55 al ‘62, aveva convocato i vertici dell’Arma per consegnare loro una copia del cosiddetto “Piano Solo”, così denominato perché doveva vedere in azione unicamente i carabinieri. Il piano prevedeva la presa di controllo del Paese da parte dei carabinieri e l’internamento di 732 militanti della sinistra politica, sindacale e del mondo culturale italiano. Il piano prescriveva una loro deportazione in Sardegna, a Capo Marrargiu (ove, nel 1990, si sarebbe scoperto che era stata stabilita la base di addestramento della struttura Gladio).
La campagna di stampa continuò per mesi, caparbiamente combattuta dalla volontà democristiana di insabbiare tutto. Nel frattempo, l’11 maggio 1967 il comandante dell’Arma dei carabinieri Carlo Ciglieri affidò un’indagine ministeriale sul tentato golpe del ’64 al generale Giorgio Manes. A settembre 1967, De Lorenzo decise di sporgere querela contro i giornalisti de L’Espresso Lino Jannuzzi ed Eugenio Scalfari, per diffamazione. Cominciò in novembre un processo dove, ben presto, “gli accusati si trasformarono in accusatori” <98: nonostante la condanna per i giornalisti, nel corso del processo erano sorte verità inquietanti sull’operato del Sifar (per esempio, si parlò per la prima volta degli
arruolamenti illegali del colonnello Rocca come possibili fiancheggiatori del golpe). Cosa più grave, era stato provato in maniera inoppugnabile che i fatti in questione, ossia la suddetta riunione dei vertici dell’Arma e la distribuzione delle liste di proscrizione, erano avvenuti. La linea difensiva del generale era di aver attuato soltanto delle azioni di prevenzione in vista della crisi di governo. Si cercò ulteriormente di arginare lo scandalo con la creazione di una nuova commissione d’inchiesta, questa volta strettamente militare, presieduta dal generale Luigi Lombardi; la speranza era che questa avrebbe ritrattato, o almeno, ridimensionato il portato della precedente commissione. Questa, nonostante la censura che pose sull’operato di Manes, confermò che il generale aveva effettivamente posto “misure illegali tese ad assumere il comando delle grandi città <99”.
Nel frattempo, scoppiava in parlamento un acceso dibattito sulla formazione o meno di una commissione d’inchiesta parlamentare: l’onorevole Luigi Anderlini, venuto in possesso del testo integrale del rapporto Manes, cominciò a leggerne
pubblicamente le parti censurate <100, tra le reazioni “scomposte, quasi isteriche <101” del presidente del Consiglio: Moro, solitamente compassato, era assolutamente contrario alla formazione di una commissione parlamentare. Tanto che, in Consiglio dei ministri, minacciò le proprie dimissioni se questa avesse dovuto avere luogo <102. La sua paura era che questa avrebbe fatto cadere il governo e che un’ulteriore crisi all’interno della coalizione di centro-sinistra avrebbe portato il Paese ad un’involuzione di destra.
Alla fine, la legislatura uscente si chiuse senza che il parlamento approvasse la costituzione della commissione; al contrario, il nuovo parlamento vide sedere tra i suoi proprio il generale De Lorenzo, senatore neoeletto tra le fila del partito monarchico. La commissione d’inchiesta parlamentare venne infine istituita il 31 marzo 1969, presieduta dal democristiano Alessi. Ma neanche questa volta i lavori poterono svolgersi in pace. Un testimone fondamentale già mancava all’appello: il colonnello Renzo Rocca, morto suicida nel giugno precedente con un colpo di pistola alla tempia; nonostante l’anomalia delle circostanze e l’avanzamento dell’ipotesi di omicidio, l’indagine venne rapidamente chiusa
confermando il suicidio <103. Il figlio del colonello avrebbe poi testimoniato che negli ultimi mesi di vita il padre appariva preoccupato proprio in vista di una sua eventuale deposizione di fronte a una commissione <104.
Nei due mesi successivi, altre due morti molto sospette vennero a turbare i lavori della commissione: il generale Ciglieri (colui che affidò a Manes la prima indagine sul Sifar) perse la vita in un misterioso incidente d’auto e lo stesso Giorgio Manes, il giorno della sua audizione, morì d’un infarto improvviso proprio sulla poltrona della commissione parlamentare <105, a palazzo Madama, appena dopo aver bevuto una tazzina di caffè. Qualche mese prima, egli era stato allontanato dall’Arma ed era stato punito come gli altri ufficiali lealisti che avevano denunciato le illegalità.
Anche il generale Zinza, comandante nel ’64 della legione di Milano, che fu l’unico a testimoniare di aver partecipato alle riunioni di giugno, vide la sua carriera bloccata <106. Al contrario, gli ufficiali coinvolti negli eventi del ’64 ottennero repentine promozioni <107.
Chi voleva una commissione addomesticata poté finalmente essere soddisfatto perché il rapporto della commissione Alessi minimizzava i fatti del ’64 e, anzi, “per sette pagine erano descritte con molta compiacenza le benemerenze militari di De Lorenzo” <108. Le sole conclusioni a cui si giunse furono una timida proposta di riforma del servizio (mai adottata) e la richiesta di distruggere 34.000 dei 157.000 fascicoli illegali del Sifar. Vennero distrutti soltanto nel 1974, dopo che una parte di questi, o tutti, erano già stati fotocopiati.
Aldo Moro, in una delle lettere dal carcere (1978), ricordò così i fatti del ‘64: “Il tentativo di colpo di stato del ’64 ebbe certo le caratteristiche esterne di un intervento militare, ma secondo una determinata pianificazione propria dell’arma dei carabinieri, ma finì per utilizzare questa strumentazione militare essenzialmente per portare a termine una pesante interferenza politica rivolta a bloccare o almeno fortemente dimensionare la politica di centrosinistra, ai primi momenti del suo svolgimento. Questo obiettivo politico era perseguito dal presidente della Repubblica on. Segni, che questa politica aveva timidamente accettato in connessione con l’obiettivo della presidenza della Repubblica. […] Il piano, su disposizione del Capo dello Stato, fu messo a punto nelle sue parti operative (luoghi e modi di concentramento in caso di emergenza) che avevano preminente riferimento alla Sinistra, secondo lo spirito dei tempi” <109.
[NOTE]
97 Cfr. G. De Lutiis, op. cit.
98 Ibidem
99 Ibidem
100 D. Conti, op. cit., pg. 28
101 G. De Lutiis, op. cit., pg. 83
102 Ibidem
103 D. Conti, op. cit., pg. 41
104 Ibidem
105 G. De Lutiis, op. cit. pg 85
106 Ibidem
107 Ibidem
108 Ibidem
109 Commissione Parlamentare d’Inchiesta sulle Stragi, Relazione sulla documentazione rinvenuta il 9 ottobre 1990 in via Montenevoso a Milano, vol. II, doc. XXIII, n. 26, “Memoriale Aldo Moro”, pp. 381-383
Claudio Molinari, I servizi segreti in Italia verso la strategia della tensione (1948-1969), Tesi di laurea, Università degli Studi di Trieste, Anno Accademico 2020-2021

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