Nell’inverno 1975 il giudice Spagnuolo torna ad apparire nelle pagine dei giornali. All’ex procuratore generale di Roma risulta infatti molto legato il sostituto Romolo Pietroni, coinvolto nel caso delle infiltrazioni della mafia nella Regione Lazio. Nel febbraio 1975 il sostituto procuratore di Firenze Pier Luigi Vigna spicca due mandati di cattura per Italo Jalongo e Natale Rimi, figlio di un noto boss, la cui assunzione presso la regione Lazio aveva destato scalpore nel 1971 per le modalità e la speditezza con cui era stata attuata <155. Contemporaneamente vengono inquisiti l’assessore regionale Dc Girolamo Mechelli, già presidente della giunta regionale, il suo collega di partito e capo di gabinetto, Michele Vitellaro, ed il magistrato Severino Santiapichi <156. Al di là degli aspetti penali il caso suscita un certo sdegno e rimane senza spiegazione la circostanza per cui esponenti politici si erano a suo tempo adoperati, con la mediazione di un consulente di un noto boss e di un magistrato, per assumere il «rampollo» della mafia nell’amministrazione comunale. <157 Un altro magistrato con cui Jalongo sembra avere familiarità è Romolo Pietroni, già consulente dell’antimafia, considerato un fedelissimo di Spagnuolo, e coinvolto con Jalongo in un’altra inchiesta su un traffico di abusi d’ufficio <158; sarà poi sottoposto ad arresto nel settembre del 1976 <159 e rimosso dalla magistratura nel 1983 <160.
In questo periodo le più interessanti inchieste della magistratura sulla criminalità mafiosa che coinvolgono, in qualche modo, personaggi della politica non sono i grandi processi incentrati sull’attività della criminalità organizzata, ma, piuttosto, una serie di procedimenti minori, soprattutto per diffamazione, attivati da esponenti della Democrazia cristiana che si sentono danneggiati dalle dichiarazioni di scrittori o politici che hanno denunciato i loro legami, veri o presunti, con la mafia.
Ad esempio quello originato dalla querela sporta da Vito Ciancimino e da Giovanni Gioia ai danni di Girolamo Li Causi, deputato comunista e vicepresidente dell’Antimafia che, all’indomani dell’uccisione del procuratore Scaglione, avvenuta 5 maggio del 1971 <161, aveva affermato che Ciancimino era «compartecipe degli interessi mafiosi» da cui era scaturito questo delitto. A gennaio del 1975 vi era stata l’assoluzione di Li Causi, che l’Unità aveva salutato con comprensibile entusiasmo e in un editoriale Pio La Torre aveva affermato che tale assoluzione era un «segno dei tempi […] la testimonianza di un cambiamento profondo che attraverso la lotta democratica, si è riuscito a determinare negli orientamenti, non solo delle grandi masse lavoratrici e popolari, ma anche di importanti settori dell’organizzazione dello Stato» <162. Ancor prima, a Torino era cominciato un processo che vedeva imputato lo scrittore Michele Pantaleone e l’editore Giulio Einaudi, querelati dal ministro siciliano Gioia per due libri pubblicati nel 1969 <163 e nel 1970 <164. Ma lo stesso Gioia si trovava nella posizione di parte offesa anche in altri processi: a Roma, dove aveva querelato il settimanale L’Espresso, e soprattutto a Genova, dove il ministro democristiano, in compagnia dell’ex sindaco di Palermo Vito Ciancimino e degli eredi del procuratore Scaglione, aveva chiesto la condanna di alcuni giornalisti del quotidiano l’Ora del capoluogo siciliano, fra cui il pittore Bruno Caruso; il processo si era concluso nel giugno del 1974 con l’assoluzione degli imputati. Lo stesso PM, Marvulli, aveva dichiarato ai querelanti «Non potete dolervi di essere raffigurati nello stesso disegno accanto ai big della mafia se, in tutti questi anni, siete stati proprio voi a volerci stare assieme» e, anche, a proposito di Scaglione, che «certi posti di responsabilità non permettono connessioni col potere politico, rappresentato da persone di non chiara fama.» <165 La sentenza di Genova aveva spinto il ministro Gioia a rilasciate una dichiarazione al Popolo <166 in cui spiegava che l’assoluzione dei querelati non significava che fossero stati provati i legami mafiosi, ma semplicemente che non vi era la diffamazione.
Ma gli sviluppi più interessanti sono probabilmente quelli del processo di Torino a carico di Pantaleone già ricordato. Nel febbraio 1975 i difensori degli imputati chiedono l’acquisizione di documenti in possesso della commissione parlamentare antimafia; tali documenti, ritengono, aiuterebbero a provare l’innocenza degli accusati <167. Un’analoga istanza viene fatta al Parlamento dal Tribunale di Milano, dove il boss Coppola ed il suo commercialista Jalongo avevano querelato il giornalista del Corriere della Sera Silvano Villani. La commissione antimafia deve dunque decidere se inviare gli atti richiesti dai tribunali di Torino e Milano, divulgandone il contenuto. Il Psi, attraverso il proprio quotidiano, manifesta con convinzione ed energia l’opportunità di inviare i documenti ai tribunali che ne hanno fatto richiesta <168. In precedenza l’Avanti si era occupato del processo a Pantaleone e aveva duramente condannato l’intervento del procuratore generale Paulesu; questi aveva messo sotto inchiesta il PM titolare per aver chiesto l’assoluzione degli imputati, soluzione evidentemente non gradita dal querelante Gioia e da Paulesu <169. In un primo momento la commissione sembra intenzionata a rilasciare i dossier e il Psi dichiara che essa ha deliberato di inviare i documenti, almeno parzialmente; ma in seguito il presidente, il senatore Dc Carraro, rilascia un comunicato in cui afferma che «la commissione non ha deliberato e non poteva deliberare alcunché in ordine alla richiesta del tribunale di Torino…». I socialisti si dissociano ed attaccano duramente Carraro <170. La Dc, partito cui il ministro Gioia appartiene (essendo uno dei maggiori esponenti della corrente del segretario) fa il possibile per mantenere sotto silenzio la questione e si mostra indispettita per l’atteggiamento della stampa indipendente, che è decisamente favorevole all’invio dei documenti a Milano e Torino <171; Carraro parla di «disinformazione» a proposito delle accuse all’Antimafia di non voler produrre i dossier <172, salvo poi confermare che la commissione non accoglierà la richiesta.
L’atteggiamento dei comunisti sulla vicenda appare piuttosto moderato; l’Unità non dà eccessivo rilievo alla cosa e su Rinascita un articolo di fine gennaio 1975 spiega che, sebbene i comunisti si siano sempre adoperati per la divulgazione dei documenti, la discrezionalità della commissione è legittima <173.
In seguito al diniego della commissione Antimafia i tribunali di Milano e Torino sollevano il conflitto di attribuzione presso la Corte Costituzionale che si pronuncerà a ottobre confermando la potestà della commissione nel decidere se divulgare o meno i propri atti <174. Si tratta di uno dei momenti definitori circa l’equilibrio di potere tra partiti e magistratura. I tribunali di Torino e Milano richiedono gli atti dell’Antimafia per poter acquisire gli elementi necessari su casi minori di diffamazione; eppure la portata politica dei casi è grande in quanto la divulgazione dei documenti richiesti potrebbe essere di notevole impatto per esponenti di rilievo della Dc. La decisione della Corte costituzionale riconosce la prerogativa della commissione di mantenere segreti alcuni suoi atti e, a questo punto, in circostanze analoghe, i commissari si prenderanno la responsabilità politica di concedere o meno alla magistratura gli atti richiesti per questioni di giustizia; responsabilità politica che diviene effettiva nel momento in cui il sistema dell’informazione si incarichi di segnalare opportunamente il caso ai cittadini elettori, gli unici giudici per questo tipo di responsabilità.
Interessante in questa vicenda la differenza di atteggiamento tra il Psi, alleato di governo della Democrazia cristiana, ed il Pci, partito d’opposizione. Il primo preme con energia per la consegna dei documenti alla magistratura, il secondo si dimostra molto più cauto e anzi sottolinea la necessità di preservare le prerogative del Parlamento.
[NOTE]
155 Della questione si occupa con impegno la commissione antimafia presieduta da Cattanei. Vedere N. Tranfaglia, Mafia, politica, affari (1943-2008). Cit. Pag. 81.
156 “Due arrestati per la mafia infiltrata alla regione Lazio”, Unità del 21 febbraio 1975 e “Incriminato l’ex presidente della regione Lazio”, La Stampa del 21 febbraio 1975.
157 “Si indaga su Rimi e Jalongo e sui rapporti mafia-politica”, La Stampa del 22 febbraio 1975
158 “Il duo Jalongo-Pietroni rimuoveva tutti gli ostacoli”, La Stampa del 16 marzo 1976
159 “Magistrato di Roma è arrestato per le licenze illecite alla Standa”, La Stampa del 26 settembre 1976
160 Il magistrato Giuseppe di Lello ricorda che una «pubblicazione vicina a Oscar Luigi Scalfaro», dimessosi dalla commissione antimafia precedente a quella di Cattanei, si era chiesto chi, tra «le migliaia di magistrati sicuramente indiscussi, avesse segnalato proprio uno in contatto con gli ambienti mafiosi» per fare da consulente alla commissione parlamentare. Di Lello ipotizza che si possa trattare del deputato messinese Dc Nino Gullotti oppure di Donato Pafundi, presidente dell’antimafia e ex alto magistrato. G. Di Lello, Giudici. Cit.
161 Sul significato del delitto vedere S. Lupo, Storia della mafia, Donzelli, Roma, 2004. Pag. 291.
162 P. Latorre, “Cosa ci si attende dall’antimafia”, Unità del 4 gennaio 1975. Il Popolo pubblica un articolo in cui afferma che la versione dell’Unità è sbagliata e che Li Causi è stato assolto solo perché avrebbe fatto quelle affermazioni esercitando le sue prerogative di parlamentare, Vedere “Gioia, Li Causi e le bugie”, il Popolo del 05 gennaio 1975.
163 M. Pantaleone, Antimafia: occasione mancata, Einaudi, Torino, 1969.
164 M. Pantaleone, Mafia e politica, Einaudi, Torino, 1970.
165 “La sentenza di Genova conferma i legami tra mafia e potere Dc”, L’Unità del 17 giugno 1974
166 “Una precisazione del ministro Gioia”, Il popolo del 20 giugno 1974
167 “I documenti dell’Antimafia punto cruciale del processo”, La Stampa del 31 gennaio 1975
168 “L’antimafia decide se consegnare il dossier” L’Avanti del 05 febbraio 1975
169 “Il PM denuncia la mafia, il PG denuncia il PM” L’Avanti del 21 gennaio 1975.
170 “Il sen. Carraro smentisce l’antimafia”, L’Avanti del 07 febbraio 1975.
171 Vedere, per esempio, “Mafia segreta”, La Stampa del 20 febbraio 1975; oppure “Antimafia, le schede a Palermo”. La Stampa del 02 marzo 1975 in cui si fa anche notare che tempo addietro la commissione aveva inviato gli stessi documenti richiesti dal tribunale di Torino alla magistratura palermitana per un altro processo; questa sembra essere la testimonianza di un membro dell’Antimafia, l’On. Cesare Terranova, della sinistra indipendente.
172 “Carraro respinge le accuse all’antimafia”, Il Popolo del 25 gennaio 1975
173 “I colpevoli sono già noti”, Rinascita N. 5 del 31 gennaio 1975.
174 Sempre che si tratti di atti «che la commissione abbia ritenuto di mantenere segreti ai fini dell’adempimento delle proprie funzioni, ma [la Corte Costituzionale] ha insieme statuito che essa ha l’obbligo di trasmettere tutti i documenti in suo possesso che, a norma di legge, non siano coperti all’origine da segreto o siano coperti da segreto non opponibile all’autorità giudiziaria penale», M. Capurso, I giudici della Repubblica. Cit. Pag. 47.
Edoardo M. Fracanzani, Le origini del conflitto. I partiti politici, la magistratura e il principio di legalità nella prima Repubblica (1974-1983), Tesi di dottorato, Sapienza – Università di Roma, 2013
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